LA GIOIA DI BATTERE IL TEMPO

INCANTO, NOSTALGIA, PROGETTO

par Pierangelo Sequeri

Pierangelo Sequeri è sacerdote, musicista e fondatore dell'Associazione italienne Esagramma con la quale a creato, nel 1985, un programma speciale di educazione musicale per fanciulli e adolescenti con difficoltà permanenti di tipo psichico o mentale. Questo metodo, conosciuto sotto il nome di "musicoterapia orchestrale" si fonda sull'inserimento dei giovani disabili in orchestri da camera o sinfoniche con degli adattamenti speciali delle partizioni e delle pratiche strumentali.

1. Il simbolo musicale del tempo: passivo, attivo. “Stare a tempo”, “perdere il tempo”. Si nomina così, nel linguaggio comune, uno dei tratti più elementari della musicalità dell’uomo. (L’altro si chiama “essere intonato”, “essere stonato”). Il comportamento musicale di base si indica con immagini che esprimono l’attitudine ad assecondare la musica. I bambini piccoli, per la gioia dei parenti, “scodinzolano” al ritmo elementare di qualche canzoncina. (Molti continueranno a farlo fino a tardà età, senza avere altro rapporto con la musica). Il canto e il ritmo della ninna-nanna, o di qualche dolce melodia, li inducono al rilassamento e al riposo. Noi stessi, quando risentiamo, in qualche brano musicale, quell’andamento, ce ne lasciamo “cullare” volentieri, con un senso di incanto e nostalgia. La percezione elementare della musica è quella che ci restituisce i ritmi elementari – normalmente silenziosi – del corpo. E il piacere della loro sintonia con il corpo d’altri. Il ritmo del battito cardiaco, essenzialmente. Da un lato la cosa più vicina alla risonanza del continuum pulsante che accompagna per tutta la vita, fornendo la base ritmica per tutto ciò che accade. Quando non lo “sentiamo” più, siamo morti. Sentire che esso “batte” anche fuori di noi – si fa “vivo” –, nella forma emozionante e piacevole della sua elaborazione musicale, ci fa sentire “vivi”. Corrispondere ad esso, assecondarlo, accompagnarlo con il movimento del corpo, incorporandolo in qualche modo “dentro” di noi, è un'emozione elementare che ci incanta sempre. Il salto di qualità si produce quando, invece di limitarci a ri-battere il tempo musicale che amplifica e abbellisce i ritmi elementari del corpo, noi ci applichiamo ad uscire da questa semplice corrispondenza. Quando cerchiamo, in altri termini, di “rompere” simbolicamente lo schema elementare della nostra accezione del tempo. Per esempio, quando cerchiamo di “costruire” una sequenza del tempo, che fa sentire la nostra capacità di modulare, variare, accelerare e rallentare quel ritmo di base. Quando cerchiamo di “dimenticare” la schiavitù nella quale esso ci tiene, sovrapponendogli l’immaginazione di una sequenza del tempo tutta inventata da noi, con avvenimenti e percorsi creati dalla nostra immaginazione di un tempo (forse) possibile, attingendo alla nostra memoria di un tempo (forse) perduto. In questo modo, noi facciamo l’esperienza, emozionante e attraente, della nostra capacità di manipolare il tempo. E persino di essere vincitori del tempo, padroni della sua organizzazione e della sua durata. In quel momento non siamo più musicali perché assecondiamo la musica, ma perché sollecitiamo la musica ad assecondare noi. Nella storia della musica, quello che abbiamo scoperto di poter fare col ritmo, abbiamo imparato a farlo con la melodia (abbiamo scoperto che lavorare sulla musica del “parlato” è interessante, e importante, quanto il lavoro che abbiamo imparato a fare sul “significante” delle parole). E poi con l’armonia, e con l’emozionante tavolozza “orchestrale” dei timbri delle voci e degli strumenti. Per questo salto di qualità, il “corpo” non ci sarebbe bastato. Ci è servita la “mente”. Da quel momento in avanti, la musica ha incominciato ad attirare la mente dentro il suo gioco. E più il gioco diventava bello, incantevole, affascinante, più la mente provava l’interesse e il piacere di lasciarsi coinvolgere. L’uomo ha così imparato incanti che, senza una mente musicale capace di creare, non avrebbe mai scoperto. La mente, dal canto suo, ha imparato di possedere potenzialità che, senza un sonoro disponibile in grado di assecondarla, non avrebbe mai scoperto. La musica può elaborare la logica sonora del parlato, con lo stesso grado di ricchezza e di sofisticazione con il quale la mente elabora la logica discorsiva delle parole. Il parlato non è il linguaggio, è il modo vivo con cui gli umani dicono le parole. Esso dice, degli umani, molte cose che si possono sentire, ma non dire. Comporre e ascoltare musica oltre la sintassi elementare dei ritmi del corpo significa essenzialmente rimodellare il tempo con la mente. Il desiderio inconscio è quello di diventarne padroni: assegnargli un andamento deciso da noi, riempirlo di ricordi e di sogni, abitarlo nel modo emozionante e incantato con cui ci piacerebbe vivere, muoverci, stabilire i rapporti, vedere le cose. Scrivere mentalmente nel tempo musicale – nel senso più ampio, che comprende l’ideazione, l’esecuzione, l’ascolto – significa “abitare affettivamente” il tempo del desiderio. Per questa ri-scrittura facciamo appello agli schemi di risonanza dei tempi – dolorosi e felici, intensi e spensierati – della nostra esistenza, che ricomponiamo, creativamente, a nostro piacimento. E quando ascoltiamo, ci fa piacere essere guidati a “occupare il tempo” della vita in questo modo. La musica intraprende una vera e propria “sfida simbolica” con il tempo: mantenere in vita gli affetti vissuti, lungo il tempo che trascorre inconsciamente verso il congedo della morte, per farli nostri, trattenerli, non lascirli sfuggire . 2. Il primo involucro sonoro della mente L’elaborazione di questa risonanza è stata la nostra prima forma di coscienza, il primo pensiero dell’interiorità. La vibrazione – il ritmo, il suono, la combinazione dei segnali, la polifonia delle voci, l’armonia dei corpi risonanti – non passa attraverso l’uomo senza depositare nell’anima, in questo suo passaggio, la traccia di un’interrogazione sul senso: l’impulso a decifrare una logica, una gerarchia e un ordine armonico-interiore delle cose che mi riguarda, da qualche parte, dentro di me. La ricomposizione simbolica di quella percezione, mediante l’ordinamento logico-affettivo dei suoni, iscrive nella mente la capacità e il piacere di riconoscere un’intenzione e di percepire una corrispondenza, il bisogno di modulare armonicamente il movimento, il gesto, la parola. Il lavoro musicale con altri, sostenuto da schemi di composizione e di condivisione degli eventi sonori, induce il potenziamento affettivo e cognitivo della logica relazionale della mente. In questo modo, ripete la nostra originale scoperta del valore della modulazione intenzionale dei suoni fra gli esseri umani. L’involucro sonoro del Sé, secondo D. Anzieu, è lo spazio psichico originario: la presa uditiva del sensibile, che si forma prima della percezione visiva, è la prima gestazione della sintassi del rapporto io-mondo. In questo spazio sonoro il bambino appena nato riceve i primi brandelli di senso. I rumori e i suoni, con le sensazioni che procurano, costituiscono anzitutto uno spazio: e hanno come feedback una prima condensazione di schematismo corporeo che Anziu nomina io-pelle. L’io-pelle è appunto, inizialmente come una membrana sonora, che funge da involucro attraverso il quale si costituisce una prima separazione significativa fra il dentro e il fuori. La complessità degli elementi che devono essere sintatticamente collegati è già rilevante, ma il loro ordinamento temporale è ancora latente. Le stimolazioni sonore sono anzitutto percepite come presenti o assenti, si intensificano e si attutiscono, ma la loro durata rimane totalmente sovrapposta allo schema della presenza e dell’assenza di risonanza: la loro durata non ha un senso differenziale all’interno della risonanza, perché non sono organizzate secondo un ordine temporale che vada oltre quello della semplice ripetizione. In questo senso, rimane valido il presupposto psicanalitico del carattere a-temporale dell’Io arcaico: la parcellizzazione degli stimoli e degli oggetti non risuona ancora nei termini di una sintassi del senso che la integra, come tale, nell’unità di un tempo vissuto. L’involucro sonoro è inizialmente attraversato semplicemente da “vuoti” che non sono ancora “pause” e “silenzi” significativi di un insieme più ampio formato dai “rumori” e dai “suoni”. La voce della madre svolge un ruolo speciale come voce-guida. Non è soltanto un ruolo affettivo, stimolante, calmante e rassicurante. Essa infonde le premesse di una continuità temporale del senso, e gli elementi essenziali di un riconoscimento individuale specifico, che accompagna la speciale ricorsività di certi tratti sonori dell’involucro psichico originario. E’ l’abbozzo del senso psichico della durata temporale: significativa proprio in quanto collegata ad una certa intonazione di riconoscimento, che è indisgiungibilmente intenzionale ed emozionale. La prosodia di quel primo canto (l’intonazione musicale del parlato e l’espansione melodica della sonorità, qui, sono l’identico) è il primo incanto del neonato: lo spazio-sonoro della transizione fra esterno e interno è polarizzato da una voce-guida che lo attraversa longitudinalmente: generando simultaneamente l’esperienza della risonanza intenzionale come indicatore di senso e della durata temporale come figura della sua continuità. Quel primo canto ha uno “stile”: un tono personale, una modulazione variabile, una capacità di comunicare stati d’animo e intenzioni relazionali. Non è un suon/ritmo elementare, simmetrico, ondulatorio, ripetitivo: come la poppata o la ninna-nanna. Esso suggerisce implicitamente, a partire da un riflesso di imitazione, il piacere e l’ambizione di padroneggiare allo stesso modo il “parlato”: creando un proprio stile, una propria capacità di modulare se stessi nelle diverse circostanze. Insomma di essere “padroni” della modulazione del tempo e della voce. Come la madre. 3. Oltre il rispecchiamento: l’emancipazione dell’io. I suoni del parlato, però, appaiono anche come eventi discordanti, che rompono l’armonia, creano disarmonia: perché appaiono una contraddizione dell’unità di senso: non solo parte della complessità dell’involucro sonoro, toccato da assenze o sostituzioni spiacevoli della ripetizione che è invece gradita. La possibile minaccia dell’alterità rispetto all’identità in formazione viene introiettata come angoscia per il destino dell’Io, e percepita proiettivamente come distruzione del senso acquisito. La voce-guida, percepita musicalmente in modo sempre più articolato e differenziato, può a volte risuonare troppo debole, o insicura, o addirittura dura e indifferente, per rapporto alla pressione di questi fantasmi del disincanto. L’eco – la risonanza - sembra allora vuota e inquietante, non più stimolante e promettente: rimanda al soggetto la sua limitazione di risposta e di interlocuzione, la sua solitudine e la sua disperazione, invece che la traccia di un passaggio che crea lo spazio di un felice contrappunto. La divisione della pulsione, innescata dall’eccedenza del lato angoscioso che si insinua nella disarmonia, “libera pulsioni di morte e assicura loro un primato economico sulle pulsioni di vita” (3) . Ricomporre la dissonanza, assegnarle un senso, riplasmarne in modo accettabile gli elementi, sottraendola alla disarmonia, è il lavoro della logica e della sintassi. La musica si esercita a sperimentarlo in mille ipotesi possibili, nello spazio e nel tempo simbolico del "gioco con i suoni" senza l’ingombro verbale del semantico e l’ingiunzione comportamentale del pratico. E’ la forma di intelligenza sintattica più pura che esista. Il suo fascino è innegabile: richiama pur sempre la prima strada verso l’interiorità del tempo vissuto che abbiamo percorso, in assoluto. Il suo interesse formativo è strepitoso. Più musica intelligente ascolti, maggiore abilità e felicità di composizione acquisisci per l’anima: a disposizione per quando servono. In opposizione all’esperienza originaria dello specchio sonoro e dell’eco risonante che rafforza l’ambizione dell’Io, sopraggiunge l’incombere della scissione. Dopo la fase incantata della lallazione, che sosta piacevolmente nel puro mondo della libera e creativa imitazione sonora, viene infatti anche il momento in cui, lo sforzo di produrre suoni propri, si scontra con l’incapacità a modularli come si vorrebbe. Ma soprattutto, incombe la percezione del fatto che i suoni delle “parole” portano attese di significato e di corrispondenza che facciamo fatica a dominare. La risonanza del “parlato” continua a guidarci, ma quella delle parole chiede un’attenzione semantica molto precisa, vincolante, in certo modo costrittiva. La nostra difficoltà a fronteggiare il registro semantico dei suoni e dei ritmi (che indica, rappresenta, prescrive) è discretamente traumatica. Qui si tratta ora di comprendere esattamente, di corrispondere con precisione, di afferrare significati diversi che stanno nel grembo di parlati apparentemente simili, di sonorità affini. Una volta superato il trauma, prevale l’entusiasmo, naturalmente. Un volta afferrato l’intrigante gioco semantico della parola, noi ci buttiamo a capofitto. Ripetiamo continuamente le parole nuove, per assimilarle, chiediamo continuamente “perché” per assimilare questa potente chiave di accesso al mondo, agli altri, a noi stessi. Qualcosa incominciamo anche a perdere, naturalmente. Perdiamo il piacere della “sensibilità fine” che una volta avevamo, nei confronti del parlato e del tono di voce: stiamo attenti soltanto a quegli aspetti che completano il significato delle parole. Una volta, il gioco dei suoni nutriva la nostra immaginazione per un mondo fatto di stati d’animo e di affetti, che costruiva storie e approfondiva rapporti fatti di pura interiorità. Ora, serve soltanto a capire cosa ci dicono e cosa vogliono da noi. La musica che ci incoraggia a regredire agli stati elementari dei ritmi e degli accudimenti del corpo continua a svolgere la sua funzione consolante, per ciò che ci manca, e non possiamo (non vogliamo) perdere del tutto. E’ inevitabile, naturalmente,. E persino necessario. In quelle originarie esperienze viviamo la nostalgia di un incanto che non ci abbandona. E’ stato un miracolo, infatti, che ha segnato il passaggio dallo stato di cucciolo allo stato di soggetto. 4. La musica che restituisce la gioia della mente. La musica in cui si esercita la capacità creativa della nostra interiorità, quella dove possiamo nutrire la nostra sensibilità per le intonazioni affettive del lavoro logico e relazionale della nostra mente, non arriva invece spontaneamente fino a noi. E noi non arriviamo spontaneamente fino ad essa. Anzi, da adulti ce ne difendiamo un po’. Il suo posto è stato largamente occupato dalla parola (dal gesto, dalla rappresentazione) che sono funzionali al sistema socialmente efficiente dei nostri rapporti. Il desiderio di sottrarci al lavoro della mente che vi è impegnato incoraggia soprattutto il ricorso alla musica della regressione, quella dove la mente non è necessaria, quella dove la mente non c’era. Il lavoro musicale della mente, nella forma simbolica di quel lavoro mentale di cui è capace solo la musica, non è un fatto spontaneo. Dobbiamo esservi introdotti, da qualcuno che voglia mettere la sua mente musicale a nostra disposizione, per lo sviluppo della nostra. Quando questo avviene, noi scopriamo il piacere di padroneggiare mentalmente la sintassi delle risonanze affettive dentro le quali viviamo il mondo (per lo più senza rendercene conto, in quanto cerchiamo di padroneggiare solo la parola). Possiamo guadagnare così un elemento di integrazione dell’affettivo e del mentale, alla misura degli sviluppi semantici (e dello stress affettivo) che la specializzazione della parola ha generato in noi. Nel caso in cui l’esperienza del passaggio alla parola – già di per sè traumatica – non abbia per qualche ragione potuto compiersi, elaborarsi, essere superata, questo elemento di compensazione può diventare prezioso. Esso, infatti, può essere investito del compito primario di provvedere comunque al rinforzo della disposizione umana a riconoscere e apprezzare una logica nell’universo emozionale, affettivo, e relazionale. Una logica che possiamo padroneggiare e alla quale possiamo partecipare attivamente. La musica riveste di fascino lo sforzo di superare i ritmi elementari del corpo e il lavoro ordinatore della mente. Una musica che contiene lavoro della mente – nell’immaginazione, nella memoria, nella creazione di forme, nella modulazione di forze – trascina il lavoro della mente. Ci restituisce la percezione di poter essere in qualche modo padroni del tempo, dei significati, delle esperienze e delle relazioni che viviamo in esso. Il consolidarsi di questa “competenza musicale” alleggerisce il senso di impotenza generato dall’ansia di un tempo saturato dall’esigenza di corrispondere alle spiegazioni e alle ingiunzioni della parola. Esso infatti alimenta la sensazione di non essere “intelligenti” e “competenti” in niente. E dunque, il senso di ottusità e di dipendenza nei confronti di un’interiorità che, invece, aspira pur confusamente ad essere “riconosciuta” e “sentita”, indipendentemente dalla sua corrispondenza alla parola e alle funzioni utilitarie alle quali essa provvede più facilmente. Nell’esperienza di Esagramma , questa opportunità è considerata strategica. E la sua elaborazione, al più alto livello possibile di complessità sintattica, come un efficace strumento di evocazione di potenziali di autoregolazione intellettiva, espressiva, comportamentale, che favoriscono un rapporto migliore anche con l’universo complessivo della parola e della relazione. Bambini e ragazzi per i quali il semantico verbale e l’ingiunzione comportamentale sono un vero e proprio “ingorgo” dell’anima, scoprono la felicità di poter conquistare una qualche buona sintassi delle emozioni, delle relazioni, del lavoro, dello spazio sociale e del tempo personale, assimilandole mediante l’esercizio di costrutti musicali via via sempre più complessi: persino orchestrali e sinfonici . Con grande gioia, naturalmente, anche nostra.